di Antonio Fasanella (Avvocato del Foro di Napoli)
Si segnala la recentissima pronuncia della Suprema Corte (sentenza 28 Aprile 2020 n. 8259) che ha mutato il precedente orientamento in materia di intervento del Fondo di Garanzia di cui alla l. 297/1982 istituito presso l’Inps, per il caso di mancata corresponsione da parte del datore di lavoro del trattamento di fine rapporto e delle tre ultime mensilità.
Come è noto, ai sensi dell’art. 2 l. 297/1982, l’intervento del Fondo, nel caso che il datore di lavoro sia fallito, è condizionato all’ammissione al passivo del credito del lavoratore. Quando invece il datore non sia soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, l’art. 2 co. 5 l. 297/1982 richiede il previo esperimento di un’esecuzione forzata infruttuosa, totale o parziale, che dimostri l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro.
La fattispecie oggetto della sentenza in commento riguarda tale secondo caso. L’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità converge nel ritenere che la non assoggettabilità del datore di lavoro alla procedura concorsuale, prevista dall’art. 2 co. 5 l. 297/1982, può configurarsi sia in astratto (perché il datore appartenente a categoria di imprenditori non suscettibili di sottoposizione a procedura concorsuale), sia in concreto, quando il datore non sia o non sia più assoggettabile a fallimento.
Le ipotesi di non fallibilità in concreto del datore sono diverse. Al di là del caso dell’impresa cancellata dal registro delle imprese da più di un anno (art. 10 l. fall.), verificabile attraverso una semplice ispezione del registro stesso, viene più frequentemente in rilievo la presenza congiunta delle condizioni richieste dall’art. 1 co. 2 l. fall., relative all’entità dell’attivo patrimoniale, dei ricavi e dei debiti.
A monte, l’accesso alla procedura concorsuale può essere precluso dal fatto che il credito del lavoratore è inferiore a € 30.000,00; in tal caso, se durante l’istruttoria fallimentare non emergano ulteriori debiti scaduti e non pagati che, sommati al credito del lavoratore, superino il predetto importo, non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 15 u.c. l. fall. (norma introdotta dall’art. 13 D.Lgs. 9.1.2006 n. 5, poi modificata dall’art. 2 co. 9 D.Lgs. 12.9.2007 n. 169).
E’ questo il caso deciso dalla sentenza in commento, nel quale l’esistenza di un credito inferiore a € 30.000,00 ha sconsigliato il lavoratore dal proporre istanza di fallimento prima di formulare in via amministrativa la domanda di intervento del Fondo di garanzia.
All’indomani dell’introduzione dell’art. 15 u.c. l. fall. la Cassazione ha ripetutamente affermato che il provvedimento del Tribunale fallimentare di reiezione dell’istanza di fallimento del datore di lavoro, per esiguità del credito, costituisce prova della non assoggettabilità a fallimento del datore ed abilita pertanto il Fondo all’intervento in presenza della sola esecuzione forzata infruttuosa, ai sensi dell’art. 2 co. 5 l. 297/1982 (Cass. 28.1.2015 n. 1607 ex plurimis).
Con un’ulteriore passo logico in avanti, di recente, i giudici di legittimità hanno esplicitamente interpretato tale norma nel senso che l’intervento del Fondo in essa contemplato può aversi in presenza di due presupposti: a) l’esecuzione forzata infruttuosa sul patrimonio del datore di lavoro; b) la verifica del Tribunale fallimentare all’esito dell’istruttoria fallimentare della non fallibilità dell’imprenditore ai sensi dell’art. 15 u.c. l. fall. (Cass. 6.9.2018 n. 21734; Cass. 7.2.2019 n. 3667).
A sostegno di tale orientamento si adduce l’argomento per cui la ratio dell’art. 15 u.c. l. fall. risiede nell’esclusione della procedura di liquidazione concorsuale in ragione di una soglia di rilevanza dell’insolvenza riferita all’indebitamento complessivo dell’impresa e non alla sola posizione del creditore istante per il fallimento, il che richiede necessariamente un accertamento del Tribunale fallimentare. Ad opinare il contrario, il Fondo di garanzia interverrebbe o meno non già per effetto delle condizioni dell’impresa nel suo complesso, bensì in relazione alle singole posizioni creditorie dei lavoratori, senza alcuna verifica sulla fallibilità dell’imprenditore.
Corollario di tale impostazione è l’esigenza che la reiezione dell’istanza di fallimento del datore di lavoro, quale presupposto dell’intervento del Fondo, intervenga (unitamente all’esecuzione infruttuosa sul patrimonio del datore) prima della domanda amministrativa di intervento del Fondo. In effetti, così aveva deciso la Corte di Appello di Napoli con la sentenza sul cui gravame ha statuito la pronunzia in commento.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, cambia rotta.
La verifica del Tribunale fallimentare non è più un presupposto dell’intervento del Fondo, bensì diviene solo un mezzo di prova dell’inassoggettabilità in concreto al fallimento del datore di lavoro.
La revisione del precedente orientamento muove dalla considerazione della natura esplicitamente previdenziale, e non retributiva, dell’intervento del fondo. Rispetto a tale prestazione, unico presupposto, nel caso di non assoggettabilità a fallimento del datore, è la previa esecuzione forzata infruttuosa che dimostri l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro. In tale contesto, la non fallibilità in concreto del datore diviene una questione pregiudiziale in senso logico, che non deve necessariamente essere accertata con efficacia di giudicato (rectius, secondo il Supremo Collegio, non può essere accertata con efficacia di giudicato, essendo il datore di lavoro estraneo alla controversia tra Inps e lavoratore). L’accertamento della non fallibilità del datore compete al Giudice del Lavoro, e può essere raggiunto con ogni mezzo di prova, conclude la sentenza: a tal fine il lavoratore, gravato dell’onere di dimostrare la non fallibilità in concreto del datore, potrà avvalersi di ogni mezzo, fermo restando che a tal fine non sarà sufficiente allegare che il proprio credito è inferiore al valore di € 30.000,00 fissato dall’art. 15 u.c. l. fall.
Ci si può domandare che cosa cambi, in concreto, nella posizione del lavoratore. Non molto, a prima vista. Egli è comunque onerato della prova della non fallibilità del datore di lavoro. Perciò, due sono i casi.
Nel primo, si assume che il lavoratore sia in possesso delle scritture contabili degli ultimi tre anni del datore. Si dà il caso quindi che il lavoratore sia in grado di valutare (da solo o con l’ausilio di un esperto) l’assoggettabilità a fallimento in concreto del datore e di concludere, causa cognita, che il datore di lavoro uscirebbe indenne da un’istruttoria fallimentare. A questo punto il lavoratore, che già ha dovuto proporre un giudizio (in via ordinaria o monitoria) per accertare il proprio credito e munirsi di titolo esecutivo ed almeno una procedura esecutiva infruttuosa, avrebbe il legittimo desiderio di evitare un (almeno) terzo procedimento giudiziario, costituito dall’istanza di fallimento. Dovrà però armarsi di pazienza, inoltrare la domanda amministrativa all’Inps allegando le scritture contabili e così argomentare che il datore non può fallire in concreto. E’ assai probabile che l’Inps rigetti una domanda del genere. Esperiti i rimedi amministrativi, il lavoratore potrà adire il Tribunale. I procedimenti giudiziari saranno in ogni caso (almeno) tre, e diventa questione di preferenza individuale del lavoratore o del suo avvocato la scelta di andare incontro ad un’istanza di fallimento destinata al rigetto piuttosto che ad un giudizio previdenziale contro l’Inps. Si dirà: questo (almeno) terzo giudizio è solo eventuale, ben potendo accadere che l’Inps accolga la domanda amministrativa. Tutto dipende dall’attitudine degli uffici dell’Inps all’approfondimento delle scritture contabili dell’ultimo triennio del datore di lavoro. Si lascia al lettore la valutazione del grado di probabilità di tale evento.
Nel secondo caso, il lavoratore non è in possesso delle scritture contabili del datore. E’ facile osservare che, in tal caso, nulla cambia rispetto a prima. Di fatto il lavoratore , all’oscuro degli interna corporis aziendali, avrà un solo modo di dimostrare la non fallibilità in concreto del datore: proporre l’istanza di fallimento e riceverne la reiezione ai sensi dell’art. 15 u.c. l. fall. . I procedimenti giudiziari anche in tal caso saranno (almeno) tre. Benché non sia strettamente necessario (alla luce della motivazione della sentenza in commento), sarà bene che il provvedimento del Tribunale fallimentare venga conseguito prima della proposizione della domanda amministrativa all’Inps, così da poterlo allegare a questa e sperare che la domanda venga accolta. Nel malaugurato caso di rigetto, i procedimenti diventerebbero (almeno) quattro.